La magia nel mondo nordico: seiðr, galdr, rune e profezie
Nel mondo nordico, la magia era una lingua antica per dialogare con gli spiriti e gli dèi, una forza capace di mutare il corso del destino. Non esisteva separazione netta tra religione e incanto: il sacro si manifestava nella parola cantata, nella visione profetica, nel gesto rituale inciso nel legno o nel ferro.
Il seiðr, il galdr, e le altre pratiche magiche erano strumenti per attraversare la soglia tra i mondi. A custodirli erano figure liminali come la vǫlva, la seiðkona, e le spákonur: donne capaci di vedere oltre, di ascoltare il linguaggio degli spiriti e di raccontare il destino.
Seiðr: la magia che tesse il destino

Il seiðr era un’arte complessa e potente: estasi, divinazione, invio di malie, manipolazione del fato, viaggi dell’anima, evocazione di spiriti.
A custodirla erano per lo più donne: le seiðkonur, esperte nelle pratiche magico-estatiche, e le vǫlur, veggenti itineranti, spesso chiamate in momenti critici della vita comunitaria (approfondisci queste figure qui). Entrambe agivano come mediatrici tra visibile e invisibile, tra uomini e spiriti, tra il tempo presente e ciò che deve ancora accadere.
Nella Eiríks saga rauða, la vǫlva Þorbjörg viene accolta in una fattoria della Groenlandia durante un periodo di carestia. Indossa un cappuccio e guanti di pelliccia, impugna un bastone intagliato, si siede sul seiðhjallr, un alto sedile rituale. Attorno a lei, le donne cantano il vardlokkur, una melodia che chiama gli spiriti. Essi parlano. La vǫlva ascolta.
Sebbene anche alcuni uomini praticassero il seiðr, per loro comportava un forte stigma sociale: secondo Snorri Sturluson, Odino stesso venne accusato di ergi (“non-virilità”) per averlo appreso. Al contrario, la dea Freyja era ritenuta la prima maestra del seiðr: incarnava l’ambivalenza di amore, morte, fecondità e sortilegio.
Galdr: la parola che vibra
Il galdr era magia sonora: una parola cantata che si faceva potere. Il verbo gala significa “emettere un canto”, spesso con intonazione modulata e ritmica. Il galdr era una formula rituale recitata per incantare, proteggere, evocare.
Nei testi eddici, i galdrar accompagnano le rune. Nella Sigrdrífumál, la valchiria Sigrdrífa insegna a Sigurd a incidere rune di vittoria sulla spada e a invocare il dio Týr. La parola e il segno si fondono: cantare è attivare, evocare, imprimere una direzione al mondo.
Il galdr poteva essere usato da uomini e donne, da soli o come parte di riti più complessi come il seiðr. Era canto di vita, di potere, ma anche di maledizione.
Spá: la visione pura

Il termine spá indica la capacità profetica innata, una forma di chiaroveggenza poetica. Le spákonur erano donne dotate di “seconda vista”, in grado di narrare il destino senza necessità di rituali complessi o trance.
Il loro potere si manifestava nella parola: una rivelazione che fluiva attraverso la voce, il corpo, lo sguardo. La Vǫluspá — “profezia della veggente” — ne è l’archetipo più alto. La vǫlva canta l’origine e la fine del mondo, intrecciando memoria e presagio, in un flusso di visione che annulla il tempo.
A differenza del seiðr, lo spá è privo di teatralità: è percezione pura, conoscenza che emerge dall’anima e non dall’invocazione.
Trolldómr: la stregoneria condannata
Il termine trolldómr compare nelle fonti cristiane e viene usato per indicare pratiche magiche ritenute illecite o pericolose. Letteralmente significa “potere dei troll”, ma nel Medioevo diventò sinonimo di stregoneria.
Le leggi islandesi, come il Grágás, punivano severamente chi veniva accusato di trolldómr: maledizioni, evocazioni oscure, incanti ritenuti offensivi per l’ordine cristiano. In realtà, dietro queste accuse si nasconde spesso la sopravvivenza di antichi saperi: pratiche di guarigione, conoscenze erboristiche, protezioni rituali che, in epoca cristiana, vennero demonizzate.
Il trolldómr rappresenta il passaggio da un mondo sacro e fluido a uno normativo e persecutorio, dove la magia smette di essere ascolto del mondo e diventa qualcosa da temere.
Runemal: la scrittura che incanta

Le rune erano più di un sistema alfabetico: erano segni carichi di potere, ognuno associato a un suono, un concetto, una forza primordiale. Il runemal — “parlare in rune” — era l’arte di usare quei segni per comunicare con il mondo invisibile.
Incidere una runa su un amuleto, su un’arma o su una tomba significava attivare una presenza. Le rune venivano cantate, legate tra loro in bindrunes, modificate graficamente per potenziarne l’effetto. Era una magia silenziosa e visiva, che agiva nello spazio e nel tempo.
Nell’Hávamál si legge che fu Odino a scoprire le rune: appeso a Yggdrasill per nove notti, senza cibo né idromele, trafitto dalla lancia, conquistò la sapienza del segno (leggi l’approfondimento del mito qui). Il dio delle parole si fece sacrificio per donare all’umanità la scrittura sacra.
La magia come sapere del confine
Nel mondo nordico, la magia non era un lusso né un capriccio, ma una necessità antropologica. Era il modo in cui una comunità si relazionava al destino, alla natura, agli spiriti. Le figure magiche erano mediatori, traghettatori di senso, portatori di parola e visione.
Recuperare oggi questi saperi significa comprendere il bisogno umano di significato. Nelle vǫlve, nei galdrar, nei canti estatici e nelle rune scolpite nella pietra, ci parla ancora un mondo in cui la magia è ascolto, relazione, trasformazione.
Letture consigliate
- Neil Price, The Viking Way: Magic and Mind in Late Iron Age Scandinavia, Oxbow Books, 2019
- Hilda R. Ellis Davidson, Gods and Myths of Northern Europe, Penguin, 1964
- Gianna Chiesa Isnardi, I miti nordici, Longanesi, 2020
- Gianna Chiesa Isnardi, Storia e cultura della Scandinavia, Bompiani, 2019
- Jesse L. Byock, Viking Age Iceland, Penguin, 2001
- Lisa Bilotti, Le radici di Yggdrasill, Dark Abyss Edizioni, 2025
